GIADA MONTOMOLI

Giada Montomoli, classe 1986, è un’artista visiva poliedrica di origine colombiana e italiana. Lavora ai suoi progetti per privati o aziende nel suo studio YeyaeFont nel quartiere di Acquabella a Milano, tiene un workshop all’istituto europeo di design – dove insegna un metodo alternativo di ricerca per concept. Predilige l’uso del tessuto come mezzo di comunicazione, sintetizzando quello che vede in simboli. Lo stile è diretto e onesto, fortemente legato alle sue origini, alla sua passione per l’antropologia culturale e la sessualità.
Alcuni dei suoi progetti più importanti Something blue, Arpilleras, Macro pieces ..
Come definiresti il tuo stile?
Di Pancia. Troppa ricerca e troppi ragionamenti mi tolgono l’emozione che mi provoca un nuovo progetto. Sono agitata, sono impulsiva e i miei lavori sono così, non sono né leccatini, né perfetti. Sono semplicemente sinceri.
Cos’è per te la personalizzazione?
È uno dei modi migliori per esprimere sé stessi. La moda ha sempre preso ispirazione dai capi personalizzati dei movimenti underground, nella musica come nell’arte. Vivere un capo e renderlo manifesto di quello che vuoi dire è qualcosa che non si crea a tavolino in un ufficio stile.
Vivere un capo e renderlo manifesto di quello che vuoi dire...


A che cosa ti sei ispirata per la customizzazione della Jumpsuit?
Alla natura che si impadronisce della città. Abiti da lavoro che diventano parte di un paesaggio naturale in un futuro alternativo.
Come l’hai realizzata?
Come ogni volta che lavoro con il tessuto, appendo il tutto su una delle travi del mio studio, butto per terra tutti miei scampoli e scarti e monto sul mio scaleo, inizio cosi a immaginare come il tessuto può adattarsi e arrampicarsi sopra, forme che nascono sempre dai suggerimenti che ogni pezzo già mi comunica. Poi colla e tanto olio di polso, si cuce tutto tendenzialmente a mano.
Come approcci un nuovo progetto? Qual è il tuo modus operandi?
Dipende tutto dal materiale che sto usando, per il tessuto lascio che sia lui a parlarmi e a muoversi. Le illustrazioni invece sono sempre messaggere di un concetto forte e spesso anche scomodo: poche linee, dettagli limitati e molta sintesi nel creare un simbolo che senza parole e fronzoli ti racconti un mondo e alle volte ti faccia fare pure un sorriso di sbieco.
Qual è la superficie su cui prediligi lavorare?
Il tessuto. Un giorno può comportarsi in un modo e il giorno dopo muoversi in un altro, non dura per sempre e le persone hanno un forte senso di familiarità davanti ad un’opera fatta in tessuto.
Hai un passato nel mondo dei graffiti e della street art. Quanto c’è di quel background nei tuoi progetti attuali?
I graffiti mi hanno dato molto anche se penso che ero un po’ troppo legata al raggiungimento di certe regole stilistiche che negli anni ho capito che non avrebbero mai parlato di Me. Mi ha lasciato la strada. Ok può sembrare un concetto generico, ma io intendo il guardare cosa succede fuori, le strade dimenticate, i segni sui palazzi e i suoi odori.








